Giovanna Riu, 2019
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo… scriveva Salvatore Quasimodo per affermare, con accorato pessimismo, come la violenza sia stata e sia, da sempre, scienza esatta persuasa allo sterminio, connaturata al vivere della specie umana.
Il poeta con la sua poesia costruisce uno spazio profondo e un’eco lunghissima tra il suono e il senso delle sue parole.
Ma anche le parole sembrano aver tradito e mistificato i contorni reali delle “barbarie” del nostro tempo.
Il pittore pensa, ma non dipinge idee, dipinge “cose”. Solo dal modo come le ha dipinte e dal linguaggio usato, può far nascere idee, attivare il senso critico.
Claudio Papola, nella sua ultima ricerca, attualizza e “mette in forma” geografie, storie antiche e recenti, assonanti con la voce del poeta.
Lo sguardo”attraversa” archeologie dove si è consumato un passato di cui restano tracce materiali, rovine. Lo sguardo visualizza luoghi del presente.
Una veduta aerea di Parigi: l’arco di trionfo diventa segnale ottico e memoria tra ieri e oggi.
Fregi geometrici, metope, archi aggettanti sono lo sfondo per scene di lotta.
I bassorilievi della colonna traiana amplificano la gloria di un imperatore.
Ogni potere impone uno stile. La lotta tra gli stili potrebbe disegnare la storia. Macchine di guerra e strumenti di morte hanno sostituito l’epica dei cavalieri e dei cavalli, hanno sostituito le armi e i corpi “ferrati” da armature. Sono cambiati i modi e gli strumenti della conquista, ma l’obiettivo è inalterato: fame di potere e una violenza intrinseca al genere umano.
Noi e gli altri.
Contro gli altri.
Ostinarsi a conoscere una sola cultura, la propria, è come vivere una sola vita, privandosi delle altre.
Le scene di sfondo che l’artista ci propone accontentano il senso estetico, rimandano alle civiltà che le ha prodotte di cui, noi, uomini dell’Occidente, ci sentiamo eredi e partecipi.
Nostalgia della storia, nostalgia della bellezza.
Ci illude l’idea che le civiltà non conoscano “patrie” e possano ignorare le frontiere politiche, religiose, culturali, economiche, quelle che separano stati, nazioni, gruppi umani.
Su queste scene “persuasive” di cui la quantità di pixel trama e sfoca i contorni “mimando” lo scorrere del tempo, l’artista interviene, concatenando, opera dopo opera, una moltitudine umana minacciosa, perennemente e fatalmente in lotta.
La categoria temporale sembra sottesa in un eterno presente.
Il suo è un segno deciso, sicuro, senza pause, come se la mano non riuscisse a staccarsi dal supporto dove agisce. E’ un segno forte come la volontà di trasmettere il suo pensiero.
Il dolore attuale ma anche antico è virato, spesso, in un blu-azzurro diffuso, colore simbolo dell’infinito.
Si materializzano “figure” umane. I corpi sono in silhouette, talvolta sagome piene, hanno perso quei connotati che li avrebbero resi persona: non hanno occhi, non hanno bocca. Sono automi raffinati, dinamici nella lotta, individualizzati nelle loro forme, anche quando “si intrigano” tra loro.
Sono congrui allo sfondo nel quale agiscono.
E’ proprio la dialettica tra quegli sfondi ( la nostalgia della loro bellezza ci aveva attratti) e la violenza che li anima, a rendere drammatica l’opera che li contiene ed il significato che suggeriscono.
I due volti di Palmira può essere scelta come paradigma.
Nel 2015 la città siriana di Palmira, la cui bellezza aveva fatto “sognare” Baudelaire, viene conquistata. Lo straordinario patrimonio artistico per il quale era conosciuta come la “Venezia di sabbia” viene disperso e distrutto. Era stata emblema di liberalità, crogiolo di culture diverse: Arabia, Persia, Siria, Grecia, Roma.
Tra Oriente e Occidente, ricca di entrambi, sempre se stessa.
Nel ricordo affiora la leggendaria Zenobia, regina illuminata.
E’ stata cancellata quella bella, possibile utopia che vede nella diversità di ogni apporto culturale, la ricchezza e l’apertura verso una civiltà nuova, migliore: verso un benessere esistenziale.
L’uniformità globale sembra essere il progetto finale.
Nell’opera di Claudio Papola il compianto per il destino della città di Palmira è lievitato dal lirismo.
La lotta diventa marginale, fine a se stessa, non uccide la bellezza. Due volti, in profilo, l’uno memoria dell’altro, ce la rimandano intatta.
In un altro lavoro, Distanze di tempo è il titolo, l’artista autografa se stesso attraverso un dipinto degli anni Novanta che nasconde, parzialmente, l’immagine di un busto e di un’epigrafe, in latino.
La sua sensibilità recettiva aveva già accolto e meditato, ben oltre la consapevolezza della propria esistenza, sugli avvenimenti, sulle relazioni umane, sull’etica delle proprie scelte. Aveva percorso un tempo nel quale si era sentito obbligato a “visioni” intensive sul senso della vita. Aveva viaggiato, aveva sopratutto navigato. Misurarsi con il mare, metafora dell’assoluto, confrontare la propria finitezza.
Cercare nuovi approdi.
In realtà tutta la sua opera di pittore “ha preso forma” dal confronto con i fermenti e le emergenze dell’epoca in cui ha vissuto e vive.
Le forme sono concetti, ha scritto Rudolf Arnheim.
Le linee guida sono state il bisogno di libertà e il senso di giustizia.
I “germi” che lievitano la sua ricerca attuale hanno iniziato a manifestarsi molti anni fa; gli eventi barbari dei nostri giorni, così densi di negatività, li hanno fatti esplodere.
L’artista ha rinunciato, deliberatamente, al piacere sensuale della pennellata, alla stesura dei colori per la ricerca della luce. Ha pensato un linguaggio asettico che potesse “contenere” le emozioni, che documentasse il disagio esistenziale del nostro tempo incerto, nel quale gli uomini si sono disabituati a comunicare.
Solo immagini fotografiche dedotte dai media, solo un segno, il suo, che alludesse alla disumanità della lotta: per il potere, per la sopraffazione, per il dominio.
Le fotografie godono, contemporaneamente, dell’evidenza della realtà e del prestigio dell’arte. Il segno, invece, vive della maestria dell’artista. Insieme, composti nell’opera, inducono a riflettere su verità drammatiche. Per visualizzare e “capire” il male, per vincere su una specie di anestesia emotiva e cognitiva, l’arte, forse, potrebbe essere guida e strumento efficace.
Mattia Lapperier, 2019
Claudio Papola, attraverso le sue tele, individua e rappresenta lucidamente un mondo percorso da una violenza che, permeandone ogni aspetto, diviene paradigma.
Il suo segno agisce sulle tele come un timbro – duplicato, ribaltato, distorto – esso si fa simbolo di uno spazio in frantumi, eroso nella sua essenza e drammaticamente marchiato da un diffuso senso di prevaricazione. I suoi uomini pugnaci interrompono la staticità del soggetto sottostante, essi vi agiscono indisturbati e, allo stesso tempo, lo profanano, alterandone la continuità percettiva dell’osservatore.
L’aggressività, la brutalità, la disumanità diventano categorie esistenziali entro cui può ricondursi ogni aspetto della storia dell’uomo. Dalle feroci guerre combattute tra la Dacia e Roma, alle rovine di Palmira, causate da un’ignoranza ferina comune a ogni fondamentalismo, la violenza attraversa il tempo e lo spazio, riattualizzandosi e riemergendo in modo imprevisto e imprevedibile come un fiume carsico.
Le tele di Papola, rielaborano alacremente il suo passato e – in contemporanea – il nostro retaggio culturale. Tra le stesse è quasi possibile intravedere un futuro che si prospetta effimero, se non illusorio, ugualmente sopraffatto da barriere architettoniche e mentali che ancora una volta divideranno gli uomini e ne segneranno l’ostile convivenza sulla Terra.
Papola, concependo la natura umana istintivamente incline all’abuso e alla sopraffazione, sembra aver interiorizzato l’assunto latino homo homini lupus. Tale rapporto è reso ancor più manifesto nella tela in cui egli accosta agli uomini un branco di lupi minacciosi che non solo circondano gli esseri umani ma allo stesso tempo ne simboleggiano emblematicamente l’istinto predatorio.
La lotta non risparmia nemmeno la dimensione del sacro; così come irrompe nei complessi archeologici, allo stesso modo invade persino le cattedrali, simbolo del potere religioso occidentale ma anche complesso di valori fondanti di una società.
La violenza, che coinvolge anche la cultura, l’arte, i linguaggi espressivi, si insinua persino negli stili architettonici, appare un elemento connaturato alla specie umana. Considerata quasi con spirito antropologico, la violenza, non risparmiando nessuno, compromette ogni etnia, ogni civiltà, ogni società. È tragicamente e consapevolmente collocata da Papola all’origine e alla fine di ogni ciclo vitale.
Gian Ruggero Manzoni, 2019
Si sceglie sempre di colpire una persona, di tirarle un calcio, di gettarle un oggetto addosso, di spintonarla, di schiaffeggiarla, di urlarle contro, di mandarle uno sguardo minaccioso, infine di ferirla o ucciderla, infatti ciò non avviene per caso.
Claudio Papola, in questo suo ultimo ciclo di opere, mette il dito nella piaga, rendendo noto che parlare di violenza come malattia è uno dei modi migliori per deresponsabilizzare gli individui che ne sono autori. Del resto la violenza non è un morbo, quindi, da essa, non si può guarire, ma dal suo vortice se ne può uscire rendendosi conto che non va trattata, appunto, come un qualcosa di patologico.
Per mettere fine a un maltrattamento fisico e/o psicologico bisogna essere in grado di operare questo primo essenziale passo, cioè avere consapevolezza di ciò per capire che il comportamento violento nasce, in definitiva, dal decidere tra varie possibilità e quindi è evitabile. Di questo deve esserne consapevole anche la società: la persona autrice di una violenza è responsabile dei suoi atti (delle sue “scelte”), perciò non le vanno offerte delle scusanti che ne diminuiscano il potere esercitato.
Su tale assunto, creativamente parlando, Papola insiste, non mostrando moti brutali quali manifestazioni di un disagio, bensì come decisioni, volute, di offendere il bello, il senso etico, il sapere, la storia, l’altrui identità, l’altrui religione, stigmatizzando il conflitto che spesso domina le relazioni umane, l’aggressività, la rabbia, invitandoci a gestirli, perché si ha il diritto, di fronte a un insulto, di adirarsi, è giusto avere un’opinione diversa, va bene sentirsi offesi, ma si ha il dovere di amministrare in modo corretto e legale, e non lesivo, quello che si prova.
Contenere la propria collera significa rifuggire il caos, nominarla con decisione, significa prendersi del tempo per riflettere su cosa ci ha fatto o ci farebbe oltrepassare il limite, significa trovare parole e immagini nuove, per noi e per chi abbiamo di fronte, che diano forma a un modo di comunicare diverso da quello che non ha funzionato, e la forte, ma, nel contempo, raffinata ricerca artistica di Claudio Papola oggi verte su questo, cioè ritrovare, in noi, la prima matrice dell’essere civile, al fine che il controllo, l’ordine e l’armonia possano risultare quali indirizzi, alternativi, a ogni moto superbo, aggressivo e prepotente di cui risultiamo vittime, dando, ad esso, le giuste, evolute e ferme risposte.