Maria Grazia Torri

1982

L’artista, il poeta, a volte è come il ‘veggente’, colui che fa da trait d’union tra un luogo e l’altro, tra la dimensione fisica e quella mentale. Se non ci fosse questo prezioso intermediario, questo “individuo radar” della coscienza rischieremmo continuamente di perdere tutto un patrimonio, tutt’una ricchezza di situazioni e di emozioni, quel “riscontro” a cui si accennava sopra. L’artista è colui che ci difende dal rischio perenne e strisciante dell’oblio, dal rimanere ammaliati e intrappolati da un epidermico quanto accattivante “canto delle sirene”.

Perché la coscienza, l’umanità nella sua tensione perenne all’adattamento rischia di appiattire il vissuto in una levigatezza monocroma e senza ombre, che utilizza la rimozione come una sua tecnica quotidiana e costante.

Per questo Claudio Papola ci racconta come vive il mare, come la sua imbarcazione lo solca, lo affronta, lo investe senza sottrarsi all’urto del rischio e della bufera.
Scegliere il mare e una vela su cui raccontarlo è il simbolo di questa volontà lucida di contemplazione, di una percezione che fissa la realtà prima che essa tramonti, prima che i flutti si richiudano per ingoiare anche l’ultima traccia superstite, anche il ricordo dell’accadimento.

Un sipario amplifica e dipana gli altri momenti della percezione e questo schermo non ha nulla di diverso da tutti gli schermi e solo per un’antica convenzione si chiama tela.
Perciò riassaporiamo il rosso di certi tramonti, fatti solo di amplificazioni e di dilatazioni di diapason di un unico colore, per questo il fulmine ci scoppia addosso producendo il suo effetto visivo e le sue conseguenze acustiche, perciò il vento e il moto ondoso si disegnano come essenze sulla vela…